C’è un filo quasi invisibile ma indistruttibile che lega gli incendi nella lontana foresta amazzonica alla carne che troviamo nei supermercati sotto casa. O ancora tra le condizioni disumane degli animali nei wet market in Cina e la diffusione di un virus che in poco tempo è mutato e ha portato al mondo una pandemia. Secondo Francesco De Augustinis, giornalista che da una decina di anni si è specializzato su temi come l’ambiente, l’agricoltura e l’alimentazione, è inaccettabile che oggi, con i mezzi che abbiamo a disposizione, non si sia ancora presa coscienza di questa profonda connessione. Che sia questa volutamente sottaciuta o forse ancora troppo complessa da comprendere. Ce lo ha raccontato in occasione dell’uscita del suo ultimo documentario “One earth – Tutto è connesso“.
Tu e il tuo gruppo di lavoro siete arrivati in Cina per realizzare un documentario sugli allevamenti intensivi e poi è scoppiata la pandemia da Covid-19: che tempismo.
Ci trovavamo in Cina proprio perché avevamo intenzione di girare un documentario che evidenziasse il rapporto tra gli allevamenti intensivi e la salute umana. Quando abbiamo iniziato il crowdfunding, prima della pandemia, avevamo già pensato di dedicare un capitolo alla salute parlando di virus e batteri, ma mai avremmo immaginato che sarebbe stato così importante. La pandemia è stata annunciata proprio mentre lo stavamo girando e quindi la salute è diventata il tema principale del racconto.
Eppure questo collegamento tra ambiente e pericoli evidenti anche per la nostra specie, non emerge: ce ne siamo già dimenticati.
È vero, le persone non si rendono conto del fatto che le loro azioni hanno delle conseguenze fin quando non gli si mostrano davanti agli occhi, però anche nel caso della pandemia, quale che si voglia credere sia stata la causa scatenante, che sia stato per un ecosistema compromesso o a causa di uno spillover, è ormai ben noto che sia legato a un problema di squilibrio. La scienza ce lo dice che è parte di un fenomeno in cui le epidemie sono destinate ad aumentare e, speriamo, non le pandemie. Non c’è stata una vera e propria presa di consapevolezza: la percezione è che questa cosa sia caduta dal cielo. Si cerca sempre il capro espiatorio, il complotto invece di capire che il problema è l’approccio sbagliato alla natura.
E secondo te, perché? C’è una volontà più grande di tenere sottaciute queste realtà?
Beh, sì, c’è assolutamente uno storytelling preciso nel raccontare le cose come devono essere ma, aspetto forse ancora più banale, le cose sono molto complesse. Se io faccio una scelta di consumo non è facile collegarla a una pandemia che mi torna indietro. Ci sono tanti passaggi in mezzo che sono complessi. Con il documentario vogliamo ampliare il campo e poterla raccontare questa complessità. E in “Deforestazione made in Italy” c’è lo stesso fenomeno. Era il periodo in cui venivamo bombardati di notizie riguardo la deforestazione in Amazzonia e gli incendi e tutti si scandalizzavano. Si dovrebbe partire dal capire che il nostro acquisto della fettina al supermercato, che poi è stata prodotta all’estero, risponde a una domanda di consumo che provoca una spinta verso la devastazione delle foreste per fare altri campi agricoli. Un piccolo servizio d’inchiesta ha difficoltà a far capire questo collegamento. Sembra sempre che sia una filiera che si comporta male, che si comporta ai limiti della legalità, ma in realtà non è così, fa parte semplicemente di un sistema. Per questo va raccontato.
Nei tuoi documentari non si propone una soluzione, però.
Sollevo i problemi, cerco di spiegarli, cerco di mostrare un aspetto quantomeno discusso. Spesso quando parliamo di clima e biodiversità le confondiamo con il tema esclusivamente dei combustibili fossili. Si confonde il tema della transizione ecologica con quello della transizione energetica. Ma non è solo quello. Se guardiamo nei giornali quando si parla di clima l’alimentazione è sempre un aspetto marginale mentre ha un peso enorme. Basti pensare che il sistema alimentare mondiale pesa almeno al 30% su tutte le emissioni globali per l’effetto serra.
I movimenti ambientalisti non sempre parlano dell’alimentazione come tema centrale, però…
Soprattutto i primi anni negli slogan dei Fridays For Future, c’erano dei cartelli piuttosto contraddittori o quantomeno incentrati prevalentemente sulla politica. In pochi anni però, sia nei Fridays che in altri ambiti, ho notato che si sta cominciando a ragionare sempre di più in termini di connessione: le cose stanno cambiando. L’informazione è sempre stata settorializzata, ma si sta capendo che c’è una prospettiva diversa, quello che vede tutto connesso, come dice il sottotitolo del documentario. Anche le associazioni hanno sempre ragionato separate: quella animalista, quella ambientalista, per l’agricoltura sostenibile e via dicendo. E lo si ritrova anche a livello di conferenze ONU: ne esistono per il clima, per la biodiversità etc. La mia percezione invece è che ora finalmente si stia andando verso una cooperazione tra le parti. Ci si sta venendo incontro perché c’è molta più consapevolezza. In soli 10 anni c’è stato un grande cambio di scenario.
Quindi serve un “attacco” su più fronti…
Quando si combatte contro la violenza e la sopraffazione non si può decidere “qui si” e “qui no”, lo si deve fare su tutto. Solo così, cambiando l’approccio, si può proporre un sistema alternativo. Altrimenti si proporranno sempre solo balsami o sistemi tampone. La filosofa Lisa Kemmerer, che finisce il documentario, mi disse proprio questo, l’ultima volta che ci siamo sentiti, che da loro in America sta crescendo tantissimo l’interconnessione e il livello di sensibilità rispetto a queste tematiche.
In Italia, qual è la situazione su questo fronte?
Secondo me tra le persone c’è tanta necessità di sapere queste cose. Nonostante “One earth” non sia facile da digerire, la risposta c’è perché la gente è pronta ad accogliere questi prodotti soprattutto quando non c’è una voglia di persuasione dietro ma solo di informazione. La difficoltà c’è, chiaramente, strutturalmente, però alle volte è superata dall’interesse. Ed è il motivo per cui poi ci ritroviamo questi argomenti sul Tg1 e sui grandi giornali perché la gente è interessata e la sensibilità aumenta.
Però qualche problema di comunicazione su questi temi è innegabile…
La cosa che mi spaventa di più in Italia, ma non solo, è che purtroppo quando si parla di transizione ecologica c’è un rischio gigante legato al fatto che c’è un mondo che investe sulla narrazione. Non solo società e aziende, ma ci sono tante aziende protagoniste che spendono tanti soldi su queste questioni: investono molti soldi sulla comunicazione, su speciali sui giornali che si occupano di agroecologia, su film e pubblicità. Da una parte c’è un sistema informativo che non è sempre pronto a cogliere tanta complessità, e dall’altro hai un sistema produttivo che per mantenere questo stato è pronto e attrezzato a spendere: è molto pericoloso. Ho visto molti speciali su food & climate, cibo e crisi climatica o sull’ambiente sponsorizzati da marchi che fanno prodotti agroalimentari o prodotti di sintesi chimica. È assurdo. Sarebbe come fare uno speciale sulla guerra sponsorizzato da chi fa le armi.
Qui tocchiamo il ruolo delle multinazionali: sono i “cattivi” o possono essere vettori di cambiamento?
Io non farei distinzione drastica tra buoni e cattivi. Il concetto della produzione industriale è molto ampio. Anche se tu fai una cosa più sostenibile come il pomodoro, invece della carne nell’allevamento intensivo, non è detto che tu lo faccia in modo davvero sostenibile. Fa tutto parte di uno stesso rapporto squilibrato. Secondo me non c’è da domandarsi chi lo fa ma come lo fa. Le domande da porsi sono sull’aspetto produttivo.
Non è proprio uno scherzo: come si controllano questi giganti?
Dare delle regole serie per far sì che queste cose non succedano può essere una soluzione, secondo me: far pagare l’esternalizzazione, per esempio, e qualsiasi cosa tu produca, se deforesti o lasci un suolo distrutto dai pesticidi, devi pagare i costi, non li deve pagare la collettività.
E sulle storie che le aziende raccontano sulla transizione ecologica?
La questione è più insidiosa perché è vero che queste aziende hanno il potere di investire nella comunicazione, e spesso proprio la divulgazione sulla transizione ecologica è inquinata dalle aziende multinazionali dell’agrotech, dell’agroalimentare, che si occupano di soluzioni tecnologiche invece che di sistemi più locali, corretti e basati sul territorio. Ora usiamo più chimica, più genetica e spendiamo ancora di più nell’industrializzazione e così a partecipare a questi eventi mondiali ci sono quelli che hanno i soldi. È pericoloso, ecco perché è importante che se ne parli. Gli alleati più grandi che abbiamo sono la verità, la trasparenza e la conoscenza.
Il documentario è prodotto in modo indipendente: scelta o necessità?
È stata una scelta. Semplicemente nascendo io come giornalista e non come regista, avendo un background diverso, dovevo per forza essere io a produrlo. Il primo progetto, il documentario “Il tabacco che uccide senza fumarlo”, è stata una vera scommessa ma poi il team di produzione del primo documentario mi ha seguito anche nel secondo. L’aspetto interessante però e che ci tengo a sottolineare, è che nonostante sia indubbiamente complicato portare in giro questi contenuti, e sia molto carente l’offerta non solo nei cinema ma anche tra le pagine dei giornali, la domanda c’è, e tanta.
E i soldi?
Entrambi i documentari infatti nascono sulla base di un crowdfunding, in questo modo molte persone hanno supportato il nostro lavoro, c’è stato un vero e proprio passaparola che ci ha dato la possibilità di avere una base economica sulla quale lavorare. E anche la scommessa del primo documentario è stata vinta grazie all’entusiasmo delle persone, non avendo dei distributori ufficiali. In questo caso soprattutto è stato fondamentale il passaparola del pubblico. Solo nel giro di due anni “Deforestazione made in Italy” ha fatto il giro di circa 150 proiezioni sulla base di persone che, ogni volta che lo presentavamo, ci chiedevano di proiettarlo da qualche altra parte. La gente quindi è affamata di questi argomenti.
Servono davvero i documentari?
L’informazione e la divulgazione o l’approfondimento di questi temi è vitale. Le politiche che serviranno e servirebbero per aggiustare la direzione verso cui stiamo andando, se non c’è consapevolezza e conoscenza nell’opinione pubblica, troveranno sempre un muro. Se un giorno metteranno una carbon tax sul clima o una meat tax se le persone continuassero a ignorare i motivi di queste tasse, non appena vedranno le bollette aumentare, saliranno sulle barricate. Se invece ci fosse un po’ più di consapevolezza, forse ci sarebbe più accoglienza verso politiche di riparazione da applicare.
Dove si può vedere One earth?
Dal primo maggio il documentario “One earth” sarà in qualche sala, che annunceremo sui nostri social, ma anche on demand sul sito ufficiale e si potrà vedere facendo una piccola donazione. Mentre siamo già a lavoro per un nuovo progetto che riguarderà la domanda su come sfamare il mondo. Più che cosa fare, lavoreremo sul fil rouge che lega gli altri due, ma concentrandoci di più su un tema che è quello del diritto al cibo.