La carne italiana fa meno male perché è più sana e di migliore qualità? La domanda è sorta spontanea nelle ultime settimane dopo che l’Oms ha inserito le carni rosse processate nell’elenco dei fattori cancerogeni e da più parti, anche a livello istituzionale, si sono levate voci in difesa della bontà e della “sicurezza” della carne made in Italy. Ma come stanno davvero le cose? Lo abbiamo chiesto a Ciwf Italia Onlus, Compassion in World Farming Italia Onlus. L’associazione, affiliata a una Ong internazionale, si occupa di tutela e benessere degli animali negli allevamenti e negli ultimi anni ha realizzato diverse video-inchieste proprio sullo stato degli allevamenti italiani.
“Certamente, non si può parlare di carne più sana”, spiega la direttrice, Annamaria Pisapia ai microfoni di Vegolosi.it. “Gli allevamenti italiani sono come tutti gli altri allevamenti europei. In stragrande maggioranza sono allevamenti intensivi dove gli animali vivono in condizioni terribili, sono spinti al limite delle proprie possibilità fisiologiche e sono spesso malati”. I video operatori di Ciwf Italia Onlus sono andati di persona a vedere cosa succede negli allevamenti, in quelli di suini “che sono protetti da una legge europea e dove abbiamo riscontrato gravi violazioni della normativa: gli animali sono ammassati in capannoni bui, sono sporchi, spesso malati e persino sottoposti a mutilazioni illegali”, racconta Pisapia. Non migliore la situazione dei conigli che negli allevamenti europei “ammassati nelle gabbie di batteria, vivono una vita non degna di essere vissuta”.
Poi, c’è il tema degli antibiotici usati per curare gli animali: “In Italia se ne fa un uso abbondante, anche a livello di prevenzione. Esistono i mangimi medicati, ovvero quei mangimi che già contengono al loro interno l’antibiotico. Il problema – sottolinea la direttrice di Ciwf Italia – è che se si ammala un animale, non viene trattato solo il singolo l’animale, ma tutto il gruppo: in un capannone di 30mila polli, per esempio, se se ne ammala uno vengono trattati tutti e 30mila e questo crea dei grossi problemi perché può determinare l‘insorgere di batteri antibiotico resistenti”.
“Allevamenti più sostenibili e più rispettosi del benessere animale – dice ancora Pisapia – possono esistere. Purtroppo, però in Italia non esiste ancora questo tipo di allevamento su grande scala commerciale. Ci sono alcuni allevamenti di nicchia, ma dal punto di vista commerciale i prodotti che ci sono sugli scaffali dei supermercati, nella stragrande maggioranza dei casi, derivano da allevamenti intensivi”.
Silvia De Bernardin