L’8 giugno i calendari di tutto il mondo si evidenziano di blu, da quando, nel 2008, le Nazioni Unite hanno deciso di celebrare, in questa data, la Giornata Mondiale degli Oceani. Una ricorrenza che si ripete ogni anno, in occasione dell’Anniversario della Conferenza Mondiale su Ambiente e Sviluppo che si tenne, nel 1992, a Rio de Janeiro. Tra pesca intensiva, allevamenti ittici, inquinamento da microplastiche e da petroliere c’è, però, poco da festeggiare: le distese oceaniche, ovvero i due terzi della superficie del nostro Pianeta, stanno assumendo sempre di più il ruolo di discarica della Terra. Dai sacchetti di plastica alle reti da pesca fino ai pesticidi, la maggior parte dei rifiuti che l’uomo produce finisce in mare tanto che, è il monito lanciato a più riprese da associazioni animaliste e ambientaliste negli ultimi anni, di questo passo entro il 2050 i mari del mondo rischiano di essere ambientati più dalla plastiche che dai pesci.
Pesca intensiva e allevamenti ittici
Al mondo, attualmente, secondo uno studio dell’International Union for Conservation, 1.414 specie di pesci sono a rischio estinzione. Ciò, in base a un’analisi diffusa su Nature, è dovuto alla pesca intensiva, fonte dell’estinzione del 90% dei pesci predatori, mentre, da uno studio pubblicato sulla rivista Marine Policy, si stima che la pesca intensiva uccida circa 30mila squali ogni ora. Una situazione che ha strettamente a che fare anche con i nostri consumi alimentari, se si considera che la maggior parte delle specie considerate a rischio di estinzione, quali merluzzo, sardina, anguilla, acciuga, tonno rosso, pesce spada, razza e palombo, sono tra le più consumate anche nel nostro Paese.
Non va certamente meglio con gli allevamenti ittici: qui i pesci vengono alimentati con mangimi, costituiti da farina e olio di pesce, realizzati con i cosiddetti “pesci foraggio” che provengono proprio dalla pesca intensiva. L’acquacoltura, quindi, non solo dipende dalle catture del pesce in natura, ma costituisce anche un pericolo per l’ambiente. Le gabbie degli allevamenti, infatti, sono situate vicino alle zone costiere e contengono centinaia di migliaia di pesci a cui vengono somministrati antibiotici e anti parassitari. Da uno studio pubblicato su Nature, l’80% degli antibiotici contenuti nei mangimi si disperde nel mare, dando luogo a fenomeni di antibiotico-resistenza e di pressione selettiva sui batteri presenti. I pesci degli allevamenti talvolta scappano dalle gabbie, divenendo così veicoli di inquinamento genetico e di malattie.
Difendere il capitale blu
“Se vogliamo salvare gli oceani dobbiamo proteggere i suoi abitanti, minacciati anche da pesca intensiva e allevamento. La soluzione c’è, con le nostre scelte alimentari possiamo evitare uno scenario tragico”, sottolinea Essere Animali. L’associazione animalista ha realizzato in questi giorni una campagna volta a sensibilizzare le persone sul tema con numerosi manifesti raffiguranti un mare vuoto e privo di vita, per evidenziare la portata del rischio di estinzione a cui sono sottoposte molte specie marine, affissi nella metropolitana di Milano.
Tra le soluzioni proposte dall’associazione per diminuire il problema vi è proprio l’eliminazione o la riduzione del consumo del pesce e una corretta informazione sulle alternative alimentari di origine vegetale, l’utilizzo di prodotti plastic-free, e la visione di documentari di approfondimento.
Inquinamento: attenzione anche alle microplastiche
Poi, c’è il capitolo plastica. Secondo un report del WWF, ogni minuto finisce in mare un camion di rifiuti di plastica, per cui, nei nostri oceani, ne navigherebbero circa 86 milioni di tonnellate. In particolare, la plastica è un materiale non biodegradabile che rischia anche di essere ingerito da animali come balene, gabbiani e tartarughe marine ostruendone la gola, il tratto digerente o impigliandone l’intero corpo, fino alla morte. Molti dei rifiuti tornano poi a riva, costituendo un enorme problema per determinate zone costiere che si trasformano in vere e proprie isole di spazzatura.
Non è solo ciò che è più visibile a causare degli enormi danni, negli oceani viaggiano anche le cosiddette microplastiche, ovvero delle particelle quasi invisibili derivate da varie fonti come l’abrasione di pneumatici, i lavaggi di tessuti sintetici ma anche da prodotti cosmetici per la pelle, come peeling e shampoo. Le microplastiche, oltre a inquinare le acque, tendono a essere riassorbite dagli organismi marini, fatto che si ripercuote, ad esempio, anche sulla salute dei consumatori del pesce.
Ancora una volta, la pesca è una delle principali cause: reti e lenze abbandonate nelle acque costituiscono, infatti, secondo Greenpeace, il 70% delle macroplastiche presenti nei mari configurandosi come vere e proprie trappole che possono continuare a uccidere indiscriminatamente per decenni, soffocando innumerevoli pesci.
Un tuffo nel Mediterraneo: cosa sta accadendo
Il consumo globale di prodotti ittici, secondo i dati FAO, è raddoppiato in soli 60 anni. Dai dati Eumofa 2018, in Italia, il consumo di pesce pro capite è del 50% più alto rispetto alla media mondiale e parecchio più imponente della media europea. In Italia la situazione presente, nel Mar Mediterraneo, non è meno preoccupante rispetto a quanto stia già accadendo negli oceani. Dai dati riportati dal WWF, emerge come il cambiamento climatico abbia già trasformato, a volte in modo irreversibile, alcuni dei più importanti ecosistemi marini del Mediterraneo.
“Il Mediterraneo di oggi non è più quello di una volta. La sua tropicalizzazione è già avanzata. Il cambiamento climatico non è un tema del futuro, è una realtà che oggi scienziati, pescatori, subacquei, comunità costiere e turisti stanno già vivendo. La posta in gioco è molto alta tenendo conto dei benefici che il Mar Mediterraneo potrebbe offrire”, spiega Giulia Prato, responsabile Mare WWF Italia. “Se vogliamo invertire questa tendenza, dobbiamo ridurre la pressione umana e costruire la resilienza. Ecosistemi sani e una fiorente biodiversità sono le nostre migliori difese naturali contro gli impatti climatici”.
A causa dell’innalzamento delle temperature, oltre il 20% più veloce della media globale, e della crescita del livello del mare che dovrebbe superare il metro, entro il 2100, il Mediterraneo sta diventando il mare con il riscaldamento più rapido e il più salato del nostro Pianeta. Nel nuovo report del WWF, The Climate Change Effect in the Mediterranean: Stories from an overheating sea, si sottolinea la particolare relazione tra inquinamento e pressioni umane sulla vita marina, come la pesca intensiva, lo sviluppo costiero antropico e la navigazione, che hanno ridotto drasticamente la resistenza ecologica del mare, ovvero, la sua capacità di rigenerarsi.