La bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, ma uno stile di vita e un sentimento. È autonomia di pensiero, libertà di spostamento, libidine del viaggio, strumento di emancipazione e di rivolta. Pedalare è un movimento circolare estremamente semplice che collega corpo e mente, attraverso un ritmo scandito dai battiti di un cuore che accelera e decelera, in un percorso di improvvise salite, discese e imprevisti che è sempre metafora di vita. Andare su due ruote è una necessità antica di velocità e di sentirsi vivi, che nella società di oggi si è capovolta in un bisogno anticonformista di lentezza, di fatica fisica e di piccole cose.
Lo racconta il sociologo e antropologo francese David Le Breton, nel suo saggio A ruota libera. Antropologia sentimentale della bicicletta, (Raffaello Cortina Editore, 2021). Il libro è un percorso organizzato in 12 capitoli, ciascuno introdotto da un’interessante citazione sul tema, che ruota intorno al concetto di “Vélorution”, un’anagramma della parola francese révolution, “rivoluzione”, unito al termine vélo, “bicicletta”: una rivoluzione su due ruote, insomma.
Nel terzo capitolo, Storia di una tecnica, scopriamo che la prima bicicletta venne realizzata in Francia nel 1790 con il nome di “celerifero”, ma che ci vorrà quasi un secolo per far sì che diventi il pratico mezzo di trasporto che oggi conosciamo. Percorrendo ancora un po’ di storia della bicicletta, Le Breton ricorda che questo mezzo è stato in grado di generare “nuove forme di sociabilità, contribuendo, a suo modo, all’emancipazione delle donne“. Andare in bicicletta, infatti, richiedeva l’uso di indumenti più leggeri e confortevoli per le donne, che pedalando hanno potuto sottrarsi “alla sorveglianza della famiglia” e, continua Le Breton, “vivere con più facilità un idillio con un amico oppure, semplicemente, vivere in tutta tranquillità”.
La Vélorution, spiega Le Breton, è un’aspirazione che dobbiamo agli Amis de là Terre, un movimento per la tutela dell’ambiente che nella Francia del 1968 accusava la società dei consumi e il progresso della tecnica di ritorcersi sulla qualità della vita.
Città più umane per chi pedala
Quanto più, in un centro urbano, gli automobilisti ricorrono all’uso della bici, tanto più quel luogo diverrà fluido: ecco uno degli assiomi proposti nel libro. La bicicletta non è solo uno svago ma un’opzione valida per sostituire l’auto e rivitalizzare quelle città – descritte nel capitolo dieci, Il monopolio dell’automobile – soffocate dal traffico, dall’inquinamento e dal rumore, in cui “la costruzione di strade e autostrade comporta un’eradicazione del territorio” che “priva la città di foreste e campi e paesi”. La bicicletta permette alla città di ritrovare la sua etimologia. Città, infatti, deriva dal concetto latino più astratto di civitas che in origine significava sia la cittadinanza romana, che il diritto del cittadino, quindi un luogo legato non tanto al valore di agglomerato urbano, ma ai cittadini stessi e al senso dell’esistenza obiettiva di una comunità. Nel capitolo 12 Le Breton, sulla scia di questa riflessione, fa notare come, soltanto una quindicina di anni fa, il centro città di Strasburgo, oggi tanto elogiato, era percorso da così tante autovetture da rendere difficile l’uso delle strade da parte di pedoni e ciclisti: ci si chiede, continua l’autore, come la popolazione potesse accettare città in simili condizioni.
Dagli anni Ottante in poi, in quasi tutta Europa, la bicicletta torna a conquistare la città, pretendendo e ottenendo spazi a lei dedicati come le piste ciclabili, veri e propri canali di respiro per i centri urbani, che piano piano tornano a mostrare un equilibrio tra pedoni, ciclisti e utenti di mezzi privati e pubblici. Le aree pedonali e quelle ciclabili, spesso vicine e intercambiabili, permettono una presenza fisica delle persone nei luoghi e quindi riportano le città ad una dimensione più umana. Lo status della bicicletta, si legge nel saggio, inizialmente mezzo per pochi, è molto cambiato: “da ‘mezzo dei poveri’ è diventata uno strumento di lotta, impiegata dalle classi medie e dagli studenti per i propri spostamenti”.
Riscoprirsi corpo grazie alla bicicletta
Tanto più è aumentato il progresso tecnologico, quanto più si è ridotta la dimensione sensibile e fisica dell’esperienza. Benché, vettore di fattori negativi quali inquinamento, costi, ingombro urbano, tragedie personali e familiari, l’automobile resta in ogni caso la pietra miliare della logistica urbana contemporanea e di conseguenza della quotidiana organizzazione delle nostre vite. Per milioni di persone, l’auto ha reso il corpo superfluo, togliendo valore alle nostre capacità muscolari, fisiche e sensoriali. La bicicletta, talvolta, scrive Le Breton, viene prescritta proprio come un farmaco per prevenire l’infarto, o per eliminare le tossine, aumentare la capacità respiratoria o la circolazione sanguigna.
Non sono questi però i motivi gioiosi che devono spingere una persona a farsi una pedalata, meglio mettersi in sella per puro piacere. La maggior parte delle persone oggi svolgono attività sedentarie che tendono a consumare più energia nervosa che corporea. Ciò spesso viene compensato con l’assidua frequentazione di una palestra, dove uomini e donne scelgono di camminare, correre o pedalare per ore rimanendo nello stesso posto, prima di prendere di nuovo la proprio vettura con cui tornare a casa per riposarsi. Questo tipo di esercizio in cui si tiene d’occhio lo smartphone, mentre le cuffie stereo trasmettono musica, ha tutte le caratteristiche di una relazione asettica con il mondo. La bicicletta all’aria aperta invece induce il rischio dell’incontro con l’alterità, con paesaggi diversi che hanno il potere di allargare le prospettive mentali di chi pedala.
“La bicicletta invita a esperire il mondo attraverso i sensi, la lentezza, la noncuranza, rinforza la sensazione di essere vivi“, continua Le Breton. Pedalando il ciclista può andare dove desidera ma soprattutto può scoprire di avere un ritmo tutto suo senza l’ansia di arrivare il ritardo o di non riuscire a trovare parcheggio.
Un gioco che dura a lungo
La bici è anche un modo per viaggiare nel tempo, recuperando un’esultanza tipica dell’infanzia e dell’adolescenza che rimanda ad una memoria corporea mai del tutto dimenticata. Infanzia è il titolo dedicato al secondo capitolo del libro, dove Le Breton mostra come un bambino che impara a pedalare non lo dimenticherà più, anche se dovesse riprendere tra le mani la sua bicicletta a distanza di anni e anni. Tutti, prosegue il sociologo, hanno una “bicicletta in testa”, magari legata a un momento speciale in cui gli è stata donata, come il Natale o un compleanno. Quella bici che all’inizio aveva le rotelle e sulla quale sono stati intrapresi i primi rischi e le prime cadute. Le rotelle, poi, scompaiono in un momento da fissare nella memoria, come una soglia simbolica, un rito iniziatico moderno, che conduce il bambino sulla strada verso l’età adulta. La bicicletta accompagna anche l’adolescenza, con quei ricordi legati a discese percorse a tutta velocità, all’incontro con un amico, con l’amore o ai tentativi di andare in due su una bici sola. A quell’età ci si mette alla prova, un po’ come quel voler provare a lasciare la presa del manubrio, mantenendo l’andatura del mezzo, per sentirsi contemporaneamente forti e indipendenti.
La bicicletta allora può anche essere una “soglia dell’esplorazione di sé” e un “campo di battaglia” nella lotta che i giovani conducono per ampliare i propri margini di manovra e costruirsi come soggetti a pieno titolo contro quei genitori sempre pronti a dettare le istruzioni su dove e come andare.
Quel mondo infantile ed entusiasta che la bicicletta rappresenta è un gioco che può durare a lungo, anche quando si è adulti e si vive il mezzo come un’apertura al mondo, un osservatorio dei modi di pensare, di sentire e di agire, una continua sperimentazione della libertà.