di Francesca Isola
Potremmo pensare che la colpa sia di Grimilde, ossessionata dalla paura che la figliastra Biancaneve fosse più avvenente di lei. Eppure no, anche Grimilde era una vittima, inconsapevole, certo, ma pur sempre una vittima del mito della bellezza. Ed è proprio questo il tema di Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza (Einaudi, 2022), saggio in cui la filosofa Maura Gancitano spiega quanto la bellezza abbia rappresentato e continui a rappresentare uno strumento di controllo dei corpi e dei pensieri delle donne, in primis, ma sempre più anche degli uomini.
Se, come spiega Umberto Eco, non è mai esistita una rappresentazione unitaria del bello e in ogni epoca hanno convissuto sensibilità ed estetiche differenti, è vero però che, con il passare del tempo, la bellezza è diventata un discorso sul corpo femminile e sulle misure da raggiungere per essere considerato accettabile. Secondo Naomi Wolf, autrice del saggio recentemente ripubblicato da Tlon, Il mito della bellezza, è a metà dell’Ottocento, con il diffondersi delle nuove tecnologie fotografiche, che essere belle è diventato un dovere. La pressione sociale, dovuta al moltiplicarsi delle immagini dei corpi femminili, ha indotto a percepire l’esistenza di un modello ideale di bellezza a cui adeguarsi, modello dettato dagli uomini che detenevano il potere della rappresentazione e che quindi erano liberi di scegliere un canone. È stato allora che la bellezza è diventata un valore sociale, un obiettivo da raggiungere
Un esercizio di potete nascosto
Il mito della bellezza è diventato così uno strumento per controllare le donne. Gancitano spiega infatti che “non si tratta di una questione puramente estetica, ma di una tecnica politica di esercizio del potere“. Il paradosso consiste nel fatto che viviamo in un’epoca storica in cui le persone potrebbero essere libere e invece sono più schiave che mai di parametri impossibili da raggiungere. “Il mito della bellezza si diffuse quando le donne acquisirono più libertà, minacciando di destabilizzare l’ordine socioeconomico e una cultura dominata dall’uomo”; diventava allora essenziale indirizzarne i consumi, facendo così in modo che, nonostante acquisissero nuovi diritti, le donne vivessero in uno stato di continua ansia da prestazione. Negli anni Cinquanta, il bersaglio della pubblicità ha iniziato a essere la donna in carriera, pericolosa perché indipendente e consapevole, che bisognava far sentire in colpa per il poco tempo trascorso in casa, guidando il suo nuovo potere sociale.
Consumatrici infelici e insoddisfatte
La ricercatrice Rossella Ghigi ha ipotizzato che la “malattia” della cellulite sia nata in Francia, a cavallo tra le due guerre, per una ragione ben precisa: in quel periodo le donne avevano iniziato a occupare molto più spazio nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro retribuito. Diventavano così delle consumatrici di prodotti industriali, da sfruttare il più possibile, controllandole attraverso il mito della bellezza.Questo, in fondo, è l’obiettivo principale del marketing. La donna deve sentirsi in colpa e perennemente inadeguata, oltre che brutta, grassa, con i capelli spenti e la cellulite ovunque. Per placare il senso di inadeguatezza che le hanno inculcato non potrà fare altro che comprare prodotti su prodotti. Se si sentisse soddisfatta e usasse la stessa crema viso per tutta la vita, non farebbe più girare l’economia, e addio profitti. In questo senso la pubblicità ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione del mito della bellezza. È grazie a lei che la società del consumo è riuscita a diffondersi e a propagandare i suoi canoni estetici, perché ritrae le speranze socialmente condivise che sono così appiattite, omologate e infine trasformate in promessa.
Nel suo Questione di sguardi (il Saggiatore, 2015), lo scrittore e critico d’arte J. Berger spiega infatti che “la pubblicità parla di relazioni sociali, non di oggetti. La sua non è una promessa di piacere, ma di felicità”. Viviamo in una società capitalistica che ci insegna che possiamo soddisfare le nostre speranze solo tramite l’acquisto di nuovi prodotti e servizi. E perché questa struttura regga e non si palesi in tutta la sua superficialità è necessario che la pubblicità sia credibile e ci convinca che il nuovo acquisto ci renderà felici e liberi. Gancitano, insieme ad Andrea Colamedici, nel loro saggio La società della performance (Tlon, 2018) spiegano che la supposta libertà è un’illusione: “Non è libertà di, ma libertà tra: non libertà di scegliere, non spazio di discernimento, ma libertà tra un numero pressoché infinito di opzioni. Non puoi sottrarti all’acquisto, puoi solo decidere se comprare questo o quello. In ogni caso, sei un consumatore“. E questo accade in ogni ambito, nei cosmetici, così come nel cibo. “Ti promettiamo la salvezza dall’intossicazione della pelle e del corpo – spiega Gancitano – cercando di redimerci da ciò che ti abbiamo venduto in tutti questi anni”. Il punto non è vendere al consumatore un prodotto bensì un’alternativa vantaggiosa a ciò che quel consumatore è. E il fine è sempre quello di indurre le persone a sentirsi insoddisfatte, spingendole così a consumare tutto il loro reddito nell’illusione di placare la loro ansia e la loro infelicità tramite acquisti indotti dall’esterno.
Fuggire dalla prigione
Nel 1997, Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts hanno formulato la “teoria dell’oggettivazione”, secondo la quale i corpi femminili vengono percepiti come “oggetti” (e giudicati molto più di quelli maschili). Ne consegue una frammentazione del corpo, costituito da porzioni sempre più piccole, che richiedono ognuna un trattamento specifico per risolvere problemi che non sapevamo nemmeno di avere. È il trionfo del capitalismo grazie al quale “il bello scompare a favore di una forma surrogata di bellezza che è solo consumo. E il consumo della bellezza è il consumo dei corpi”.
Questo sguardo oggettivante intossica la mente della donna privandola delle risorse emotive e intellettuali che potrebbe destinare alla sua crescita personale. Se, come spiega Gancitano, “l’idea di bellezza ha subito con la società borghese uno spostamento di significato, da enigma a misura a cui conformarsi” adesso è il momento di riappropriarsene. La bellezza non ha niente a che fare con il corpo ma è sempre stata il tentativo di cogliere il sublime e l’intensità che una persona o una situazione ci trasmettono. Il compito di ognuno è quello di sviluppare un’immagine positiva di sé dando spazio alla propria creatività e a tutto ciò che riempie di senso la vita finché le parole di Naomi Wolf non saranno più vere: “Tutte le volte che ignoriamo o non ascoltiamo una donna alla televisione o sulla stampa perché la nostra attenzione è stata attratta dalla sua taglia, dal suo trucco, dal suo abbigliamento o dalla sua pettinatura, il mito della bellezza funziona al meglio della sua efficienza”.