Vegolosi

L’Antropocene secondo Italo Calvino

«Mi appassiona l’immagine di un universo unitario a cui siamo tutti chiamati a collaborare», scriveva Italo Calvino in un’intervista del 1985, una frase che riassume bene la sua visione in merito al suo rapporto con la natura. A spiegarlo è Serenella Iovino, professoressa ordinaria alla University of North Carolina, Chapel Hill, dove ha inaugurato la prima cattedra congiunta di Italian Studies ed Environmental Humanities. Saggista, studiosa di filosofia e letteratura, con il suo libro Gli animali di Calvino. Storie dall’Antropocene spiega che Calvino era letteralmente un “biologo”, cioè uno scrittore capace di dare parola alla vita con la consapevolezza che l’essere umano non è padrone del pianeta Terra e neppure della propria immaginazione. Piante, insetti, rettili, batteri e conchiglie sono per lui tutti parte di una fantasia materiale che cresce e fiorisce insieme alle parole che stanno intorno e dentro di noi. Serenella Iovino ci guida così alla scoperta di alcuni tra gli animali più significativi provenienti dai romanzi e dai racconti di Calvino e della loro interpretazione del presente in relazione alla nuova era che ci accomuna: l’Antropocene.

Il saggio è suddiviso in cinque parti principali, corrispondenti ciascuna alla storia di un particolare animale. Come sostiene Iovino, sono però formiche, galline, un gatto, un coniglio e un gorilla i veri narratori. Con la fantasia come guida, Calvino ci mostra che cosa hanno da insegnarci alcune specie “esemplari” come queste, sulla realtà che viviamo oggi. Per far ciò l’unico modo, tanto per Calvino quanto per l’autrice, è stato sempre quello di spostare il focus dal modo in cui noi li vediamo, al mondo in cui vivono loro.

Cosa vuol dire essere una filosofa ambientale? Nell’immaginario comune, filosofi e letterati sono più dediti alla riflessione che all’azione concreta…

Un filosofo ambientale, oggi, ha tantissimo da fare perché il mondo, come un corpo vivo, è in sofferenza e sono perciò innumerevoli gli aspetti che ne richiamano lo studio. A dirla tutta, di fatto quello che fa un filosofo ambientale è pensare la realtà. Una risposta un po’ svincolata da ogni tipo di concretezza. Eppure, pensare la realtà significa anche raccontarla perché non si può pensare qualcosa senza darvi attenzione. Quello che faccio, a partire dalle mie prime pubblicazioni accademiche sino a quelle inerenti temi più divulgativi, è certamente lo sforzo nel far comprendere quello che io capisco. Questo dovrebbe essere l’impegno non solo di ogni insegnante, ma di ogni intellettuale. Si tratta di provare a dare alla propria intelligenza una dimensione transitiva, piuttosto che una dimesione autoriflessiva che porti alla solitudine e al solipsismo. Nel nostro lavoro riflettiamo sugli stili di vita, sulle relazioni con il non umano, sul futuro, sul tipo di cultura che ci è stata consegnata e le cui conseguenze si perpetuano sul presente. Di fronte al cambiamento climatico, ai rifiuti o al concetto di Antropocene, un filosofo ambientale si interroga, innanzitutto, sulla complessità. Un filosofo ambientale, per prima cosa, non può non ripensare l’antropocentrismo, in tutte le sue implicazioni e conseguenze. Non si scappa: il pensiero ambientale è un pensiero politico, un pensiero etico, metafisico, ontologico perché mette a fuoco l’essere delle cose con cui ci troviamo a rapportarci nella nostra quotidianità.

Quale messaggio nascondono le storie di Calvino attraverso le cinque categorie di animali presenti nel libro?

Partiamo dalle formiche. Con il romanzo breve La formica argentina Calvino ci permette di capire il tema delle invasioni di “specie aliene”. Queste formiche, infatti, hanno avuto una pro- liferazione globale che le ha portate a essere considerate tra i cento “invasori” più pericolosi al mondo. Una delle caratteristiche della vita in quest’epoca sono proprio gli sconvolgimenti portati da alcune specie che attraversano il globo. L’arrivo della formica argentina nella Riviera del Ponente Ligure diventa il simbolo di un capitalismo che si riflette nella nuova prosperità di questo paesaggio. In pochissimo tempo le case vengono “informicate” da questi piccoli alieni domestici che, come sostiene Calvino con un tono distopico, sono nemici “come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale”. La storia della formica argentina è profetica di quelle future invasioni dovute a microplastiche, rifiuti e virus che Calvino, in quel momento, non poteva vedere.
Con Il giardino dei gatti ostinati, testo che corrisponde al secondo capitolo del romanzo Marcovaldo, ho potuto analizzare lo scontro tra l’habitat urbano e quello delle specie selvatiche. La trama mescola fiaba e surrealismo: Marcovaldo insegue un gatto che gli ha sottratto una trota (che lui in realtà aveva appena rubato in un ristorante) e si ritrova in un caotico giardino completamente invaso da felini. Mi sono divertita ad analizzare i rapporti di co-evoluzione che abbiamo avuto con i felini – che non sono solo i nostri mici domestici -, rintracciando le modalità di possibile convivenza che possiamo avere con le specie selvatiche in città. Attraverso gli ultimi tre animali porto alla luce tre differenti ambienti oscuri dell’Antropocene: il laboratorio, la fabbrica e lo zoo. La discussione ruota qui intorno ai test animali, alla vivisezione, all’interanimalità, alle estinzioni invisibili e alle solitudini derivate dal dominio coloniale. In ogni capitolo, ho cercato di intrecciare la mia voce a quella di Calvino con l’idea di lasciar parlare gli animali.

In La gallina di reparto, brano sempre tratto dal romanzo Marcovaldo, viene alla luce una storia operaia in cui lavoratori e animali risultano intrappolati in modo parallelo nella civiltà industriale.

La gallina una volta in fabbrica deve produrre e lo fa senza lamentarsi. Ogni volta che un essere non è più, anche il suo mondo si restringe. Con la chiusura della gallina nella fabbrica si estingue anche il paesaggio bioculturale in cui era libera di andare a beccare i vermi. Il paradosso è che mentre questa dimensione tramonta, la produzione industriale di pollame ha raggiunto dimensioni epocali. Definire quindi “Pullicene” questa età non sarebbe una definizione così campata in aria, in questi strati terrestri dove le ossa di una moltitudine di creature silenziose, che ci nutrono e lavorano per noi, si trasformano in segni incolpevoli della geologia dell’umano. Calvino sapeva benissimo di essere un animale tra altri animali e non necessariamente il migliore o il più privilegiato. Ciò perché riconosceva in ognuno di essi la presenza di una mente. Forse non si può definire a tutti gli effetti questo scrittore un “animalista”, eppure era molto di più che un sostenitore dei diritti animali: era un sostenitore di mondi animali, della loro indipendenza, del loro essere sempre realtà di segni, di storie e desideri. Entrare in questi mondi ci fa comprendere meglio il nostro. Calvino ci mostra come gli animali a volte ci sembrino distanti perché gli esseri umani sono i primi a essere lontani da loro stessi. Dobbiamo imparare da loro a riavvicinarci e farci compagnia.

Oltre agli animali di Calvino, il suo libro ha un co-protagonista: l’Antropocene. In un passaggio del libro emerge come spesso circolino frasi improprie dove si accusa l’Antropocene di fenomeni quali i cambiamenti e le crisi climatiche. Cosa si cela dietro questo Antropocene? E se l’Antropocene è innocente, di chi è la colpa?

L’Antropocene non ha colpa perché non ha colpa nulla che non abbia un’intenzionalità. La colpa è un concetto esclusivamente umano per definizione e in realtà si tratta di un insieme di fattori. Se parlassimo con dei geologi, ci mostrerebbero le tracce che stanno rilevando per valutare se l’Antropocene sia o meno una vera e propria età della Terra. Non sarà semplice dichiarare nell’immediato l’Antropocene esistente da un punto di vista geologico, si tratta di processi lunghi. L’Antropocene è a tutti gli effetti emerso come discorso letterale e filosofico, rappresenta “l’età più nuova dell’umano”, in quanto l’essere umano è diventato un marcatore geologico, un agente planetario. Non sono solo presenti un cambiamento del clima, dell’atmosfera e della composizione delle acque, ma anche l’emergere di conformazioni geologiche ibride. Cemento e asfalto, ad esempio, sono diventati strati effettivi della crosta terrestre, così come le nostre attività estrattive e ciò ha dei significativi impatti radiali su tutta la nostra biosfera. Antropocene significa manipolazione della vita da un punto di vista industriale e del consumo. La vita è nelle mani dell’umano e noi assistiamo come a questo stato di cose corrisponda un riverbero di notevolissime diseguaglianze. Infatti, non tutte le persone vivono allo stesso modo, sulla Terra, l’impatto di tali cambiamenti. Ciò ci porta a pensare che non tutti gli esseri umani siano uguali e ugualmente responsabili di questi cambiamenti. L’Antropocene ci mette di fronte a questa realtà, che è contemporaneamente impattata dall’umano ma, a un certo punto, incontrollabile. Penso che oggi un filosofo ambientale non possa non riflettere sull’Antropocene. Esso esiste nelle nostre menti e nella nostra quotidianità. Non inizia oggi, non nasce ex abrupto, ma ha una storia. Nel frattempo che i fenomeni si preparano e si mettono insieme, ci sono segnali e sintomi che devono essere captati.

Che cosa c’entra quindi con l’Antropocene uno come Italo Calvino, che di mestiere faceva lo scrittore?

Immaginiamo due foto. Nella prima ci sono delle capre e nella seconda un fungo. Entrambe stanno sullo sfondo di un isoletta del Pacifico e, naturalmente, il fungo è atomico. Siamo nell’estate del 1946 e le forze armate americane, non soddisfatte della “letalità” delle bombe testate l’anno prima su Hiroshima e Nagasaki, si sono lanciate nell’operazione Crossroads. Non è solo il luogo a essere stato scelto con cura ma anche le cavie da caricare sulla flotta come ber-aglio. Oltre a cinquemila ratti, duecento topi e sessanta porcellini d’india, ci sono anche du centoquattro capre. Queste immagini arrivano a noi proprio dall’articolo Le capre ci guardano di un giovane Italo Calvino – aspirante scrittore appena ventitreenne – pubblicato sul quotidiano “l’Unità”. Calvino era rimasto stupito di come l’opinione pubblica americana fosse stata mossa a commozione proprio da questi animali: alcuni allevatori californiani realizzarono persino un evento in loro onore. Nessuno lo aveva fatto per bambini, donne o anziani: com’era possibile che ora si commemorassero le capre? Calvino legge in questo fatto un segreto rimorso dell’essere umano verso gli animali e un senso di vergogna perché in fondo, in questa storia, le vere bestie non sembrano essere le capre. Ecco come, in linea generale, il fallout dell’esplosione, l’invisibile sedimento radioattivo che ritroveremo dappertutto, dai ghiacciai fino alle nuvole, si infila tanto nella scrittura di Calvino quanto nel nostro pianeta, inaugurando la nuova epoca dell’Antropocene. Leggendo Calvino con questa mia chiave di lettura ho capito che tutti questi aspetti inerenti l’Antropocene, lui li stava intuendo e mettendo insieme. Non aveva ancora un nome per comunicarli, per lui erano il mondo stesso. Calvino, quindi, testimone inconsapevole di un nuovo inizio, non ha dubbi nel denunciarlo e lo fa mettendosi nei panni di chi non ha nulla a che fare con queste stratificazioni geologiche dell’umano ma ci capita nel mezzo: gli animali, appunto. Con il Gorilla albino, ad esempio, brano tratto dal romanzo Palomar – che ho analizzato in un capitolo del mio saggio – si racconta la storia di un incontro allo zoo di Barcellona tra il signor Palomar e Copito de Nieve, in italiano Fiocco di neve: un gorilla albino, la principale attrazione del luogo. Palomar lo vede mentre abbraccia n copertone d’auto e gli pare che provi la sua stessa frustrazione nel voler dare un significato alle cose senza mai riuscirci. Mentre però Palomar, pur inquieto e sconfortato è nel suo ambiente, il gorilla dalla gabbia tradisce la sua natura e la sua capacità di interagire con il mondo. Slegato dalla giungla, Copito de Neive resta sospeso in un vuoto inquietante perché, come scrive il primatologo Frans de Wall: “Si può strappare la scimmia dalla giungla ma non la giungla dalla scimmia“. Il racconto si conclude con l’uscita dallo zoo del signor Palomar che ci consegna l’immagine di un gorilla che non riesce a togliersi dalla testa, costringendoci a pensare alle infinite estinzioni, alle singolarità perdute e al fatto che “tutti rigiriamo tra le mani un copertone vuoto mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo in cui le parole non giungono”.

Nel terzo capitolo, quello sul coniglio, lei approfondisce il tema delle sperimentazioni animali e dell’uso degli stessi come cibo, affermando che “l’Antropocene, attraverso la tecnologia del capitalismo e delle grandi multinazionali farmaceutiche, penetra la carne del mondo: e che sia carne umana o animale poco importa”. Cosa ne pensa dello sfruttamento animale e cos’è questa “carne del mondo”?

Questo tema intreccia questioni filosofiche e etiche importantissime. Al cuore della filosofia ambientale c’è il rapporto con il non umano. La filosofia ambientale è anche una forma di bioetica e quindi, certamente, sono convinta che, da un punto di vista pragmatico, dobbiamo cercare delle alternative ai test sugli animali perché abbiamo alcune tecnologie per farlo. Ciò non nega che sia stato, ahimè, anche storicamente importante esser passati attraverso la sofferenza di altri esseri non umani e umani. Purtroppo, dobbiamo accettare il compromesso di una storia che, attraverso tentativi ed errori, ci ha anche concesso dei benefici per noi, le future generazioni e, se vogliamo, per gli altri animali. Gli animali non umani sono stati storicamente privati della loro individualità, del loro essere e del loro mondo. Basti pensare all’influenza della religione cristiana che ha posto l’essere umano come interlocutore privilegiato con la divinità. Nel Cristianesimo la carne viene mortificata, ma la carne del mondo non interessa molto. D’altra parte certi metodi scientifici, basati sul dualismo cartesiano, portano a dimenticare la tradizione antica dell’anima del mondo. Le visioni filosofiche certamente sono state importanti per determinare una certa pratica scientifica, ma le concezioni che vanno rifiutate sono proprio quelle che negano la capacità degli esseri senzienti di essere quello che sono, ovvero vivi e senzienti. Secondo me bisogna trovare alternative e in certi Paesi tutto questo si traduce in un sistema di leggi in cui, sia nel consumo di carne che nella ricerca farmaceutica, viene messa a nudo la crudeltà profon- da di queste pratiche. Per il consumo di carne l’aberrazione più grande è l’uso dei corpi animali, o del “corpo del mondo” poiché anche l’agricoltura intensiva è una forma di sfruttamento della “carne del mondo” che reca un impoverimento di tutti gli ecosistemi. È un problema massiccio e indescrivibilmente ramificato. È difficile pensare a una soluzione sostenibile che non si accompa- gni a una riduzione della popolazione, ma in che modo si può perseguire senza accompagnarla a un discorso di equità sociale? Chi si deve limit re? Il primo mondo, il secondo, il terzo? Personalmente, non ho una risposta, posso solo dire che a questo punto si tratta di questioni sia politiche che metafisiche e penso che molto possano fare le scelte individuali. Ad esempio, chi legge un tipo di rivista come questa ha già fatto delle scelte. Penso che si debba incrementare sempre di più la consapevolezza su questi dilemmi problematici. Bisogna capire, anche quando si è vegani, che cosa significa essere vegani. Un mondo vegano non è necessariamente un mondo più giusto e non è necessariamente più pulito, più ecologico.

Calvino riesce a far narrare ai suoi animali un’epoca che per lui era il futuro. E lei, come lo vede il futuro in tre parole?

Tempestoso, multispecie e creativo: ci aspettano molte tempeste ma non siamo soli e dobbiamo inventarci delle soluzioni che valgano per tutti.